Quando apro gli occhi in una stanza che non è mia, dove l’odore non mi è familiare, dove c’è uno strano silenzio che non è quello di casa mia, capisco subito che sto per immergermi in una nuova giornata piena di gente, piena di rumore, pieno di banchi, pieno di nozioni.
Gli occhi sono aperti ma vedono quello che vogliono loro, in mezzo alla nebbia, e poi dai, non c’è più tempo, inizia a girare la trottola.
I primi volti assonnati, truccati di fresco, li vedi dietro le tazzine con le muesli e le fragole, automi che si alzano dal tavolino al banco dei cornetti a scegliere la cosa più buona che c’è mentre ci si chiede che cosa ci si fa lì, in quel posto, in quel momento. Non ti ha obbligato nessuno, ma sei lì.
Ciao, ciao, ciao, buongiorno… mentre quello che vuoi dire sarebbe “ma lasciami perdere…”
I profumi ancora con la nota di testa che entrano nel naso come il trapano di un dentista sul molare cariato, scene che nei posti di lavoro non si vedono, perché di solito in ufficio arrivi molto dopo aver fatto colazione.
Ma qui è così, la mia vita è, o forse è meglio dire era, così, e non ho paura di fare un video in pigiama perché i miei “amici” li ho visti un minuto dopo che il pigiama se lo sono tolto, con le ciglia appena truccate, le labbra lucidissime, la camicia senza una piega, la cravatta col nodo bellissimo.
Ecco le prime smorfie, pugni sul tavolo… la nutella sulla cravatta, la marmellata sui pantaloni, baffi di zucchero al velo che il tovagliolo non pulisce mentre invece ti toglie il rossetto.
Scene domestiche rese pubbliche in un gruppo che ogni mese si ritrovava, scene che… come mi mancano!
Tutti mi salutavano, cercavano un momento per dirmi una parola, e allungando gli occhi vedevo chi, trafelato, arrivava mattiniero con i suoi bagagli da un lungo viaggio.
Un caffè al bar, per me un saluto c’era sempre, e poi via in aula che poi ti riempivi nei coffee break. Una dopo l’altra le persone scorrevano, con il loro badge colorato fatto bene, col sorriso, con qualche sbadiglio, e, in alcuni casi, taciturni coi calli pestati… ma come mi mancano.
Magari era la prima volta, e la mia voce già sentita al telefono gli dava un po’ di tranquillità, li metteva a loro agio mentre entravano in un mondo nuovo che parlava di aspettative, di cambiamento, di squadra.
“Ok, non sei in quel corso, ma dai, entra in aula lo stesso, digli che te l’ho detto io…”
“Non ti preoccupare, è un momento difficile, ma non ti preoccupare perché questa è una squadra quando le cose vanno bene e quando vanno male.”
Quante volte ho detto queste cose a chi guardavo negli occhi percependo le sue emozioni?
Ed oggi quei volti li ho tutti nella mente, sento ancora le loro parole ed il loro profumo appena spruzzato, e mi mancano loro e mi manca tantissimo l’opportunità di conoscere chi invece conosco solo virtualmente.
Forse è colpa mia, forse è l’età, o forse anche un po’ di inguaribile voglia di contatto umano, ma non riesco a conoscere le persone lavorando così. Faccio fatica a portarle nel mio mondo di attenzioni che amavo dare perché io sono nato così; a distanza non ricordo i loro volti, non ricordo i loro nomi, rischio di trattare le persone co+me dei numeri, e sto male solo a pensarci.
Mi scuso con chi al telefono mi ha dato fiducia e magari io adesso non degno della giusta considerazione. Mi ripasso i nomi, salvo le immagini del loro viso, ma non è la stessa cosa: sono persone, non clienti per me.
Non basta spruzzare un profumo nell’aria per sentirsi una persona vicina, per stare bene, per vivere una giornata alla grande.
In quei tempi c’era chi diceva che quel giorno era l’unico felice durante il mese e la sera, quando ci si alzava dalle sedie per tornare a casa, le lacrime si vedevano ed un groppo in gola ce lo avevamo tutti.
Mi manca la vita reale, non aspetterò che qualcuno decida per me seduto comodamente su un divano; combatterò con tutte le mie energie perché io possa tornare a stringere mani, scrutare pupille, sentire profumi e vedere baffi di zucchero, in un mondo reale che, se non sarà più come prima, farò in modo
che sia meglio.